Corriere della Sera, 22 novembre 2002
Cofrancesco Dino
La prima volta che incontrai Bobbio (per me, laureando in filosofia, era un illustre Carneade e già questo la dice lunga sulla serietà dei nostri studi universitari.) fu nel 1965 (o giù di lì) alla genovese «Società di Cultura» - un' associazione in cui il membro più ' moderato' era un socialista lombardiano di sinistra. Lo studioso, discettando sulla funzione dell' intellettuale nella società contemporanea, sosteneva la tesi che ai cittadini della Repubblica delle Lettere si addicesse la critic a, non la protesta. Era un compito, quello assegnato alla «classe dei dotti», che, da un lato, rinviava a una dimensione ' classica' del sapere - vedi la celeberrima metafora ciceroniana sul filosofo che si reca al Circo non per gareggiare, né per ti fare, ma per osservare gli atleti e il pubblico; dall' altro, traduceva in una formula felice quella tensione conoscitiva che Max Weber, ne Il lavoro intellettuale come professione, aveva posto a fondamento dell' impresa scientifica.
Ritengo, sincera mente, che il Bobbio, divenuto, a partire dai tardi anni settanta, il più ascoltato maître-à-penser della sinistra, non sia stato sempre fedele al principio difeso in quei lontani anni sessanta. La passione politica, attivata sempre da una genuina in dignazione morale, non di rado gli ha preso la mano, inducendolo a firmare manifesti che, come tutti i manifesti (di destra e di sinistra) non sono dettati dallo Spirito Santo o dall' Imperativo categorico ma da interessi e da valori che, in questo n ostro malinconico mondo sublunare, sono sempre, inevitabilmente, interessi e valori degli uni contrapposti agli interessi e ai valori degli altri.
In tutto questo, beninteso, non c' è nulla di male: a un patto, però, che si non si perda la consapevol ezza che «scendere in campo» significa parteggiare e quindi esporsi ai colpi di quanti stanno dall' altra parte. Che tali colpi, in quest' alba torbida della malcerta Seconda Repubblica, non siano di fioretto ma di clava è un fatto. (...)
Sennonché i l vero «problema Bobbio» non è di stile, ma di sostanza. Si tratta di stabilire se, nel dibattito politico che caratterizza ogni società civile liberale, vi siano «monumenti storici viventi» da considerare intoccabili o se il processo di secolarizzaz ione in atto da secoli non debba «guardare in faccia a nessuno» ovvero debba investire anche i rapporti coi «padri della patria»(o presunti tali). (...)
Con il suo «travaglio del concetto», spossante e gratificante insieme, Bobbio ha comunicato a int ere generazioni il gusto della lettura diretta dei classici, del «gioco della scienza», della insuperabile problematicità del reale. Anti-ideologo, per eccellenza, lui, pur così turbato dall' insondabile mistero che incombe sul povero genere umano, h a insegnato a diffidare delle fedi che, col loro bagliore accecante, ci precludono la comprensione della realtà - nella consapevolezza, per integrare una massima di Aron, che anche la libertà intellettuale è pianta fragile che non sopravvive nella te mpesta delle passioni. E il liberalismo non è, in primo luogo, «laicità dello spirito»?
Vale la pena di ricordare che, nella sua vastissima produzione scientifica, la forza del suo Dna liberale spesso ha fatto aggio sui suoi pregiudizi politici «gobe ttiani».
Nel dibattito sul fascismo di alcuni decenni fa, Bobbio si distinse per una tesi non poco controversa (se non erro, criticata anche da un suo sincero estimatore come Gianfranco Pasquino), quella per cui il fascismo non aveva prodotto nessuna cultura. E tuttavia, nel 1975, lo stesso filosofo, riconfermando la sua predilezione per il numero tre (i suoi allievi lo avevano affettuosamente soprannominato. Un, due tre, sciuè, sciuè..), aveva ricostruito, con grande penetrazione, i tre momenti salienti dell' ideologia fascista - il fascismo come restaurazione, come rivoluzione, come innovazione - con una conoscenza delle fonti e una curiositas intellettuale francamente insospettabili. Non era forse la traduzione scientifica dell' obbligo fatto all' uomo civilizzato di conoscere il suo avversario e di descriverne, pacatamente, idee e «intenzionalità»?
E nel Dialogo intorno alla Repubblica, non rispunta, forse, il ragionatore implacabile e realista a fare letteralmente a pezzi la retor ica ' repubblicana' del suo interlocutore Maurizio Viroli, al quale pure lo accomunano insofferenze e idiosincrasie per l' attuale classe dirigente? «Riflettendo sull' indipendenza - afferma - non riesco a trovare quel terzo significato di libertà di verso tanto dalla libertà intesa come assenza di interferenza (libertà negativa), quanto dalla libertà intesa quale autonomia (libertà positiva). Non riesco a vedere la differenza fra la libertà intesa come indipendenza e la libertà intesa come auton omia».
A casa di Bobbio, nel bunker di libri, la cosa che più mi colpì fu la fotografia di Benedetto Croce sul tavolo dello studio. «Si può criticarlo quanto si vuole - mi spiegò amabilmente - ma la sua teoria dei ' distinti' è una parente stretta de l liberalismo».
Non vorrei essere cattivo ma sono sicuro che, come la grandezza di Croce è venuta sempre più emergendo con l' estinzione della scolastica crociana, così quella di Bobbio emergerà con l' oblio della petulante "setta militante", che a l ui si richiama nell' intento di coinvolgerlo, almeno sette volte al giorno, in qualche appello a favore di Mani Pulite, contro il rientro dei Savoia, contro le malefatte del governo Berlusconi eccetera. (Riusciranno i suoi vecchi colleghi perbene, in primis Gian Enrico Rusconi, a tener lontani gli importuni da Via Sacchi?).
Insegnando a ragionare sulle complicate vicende della politica e della storia, il filosofo torinese, in definitiva, non ha fatto altro che tenersi fedele al kantiano sapere a ude ovvero al motto più incisivo dell' illuminismo liberale. Basta questo ad assicurargli la nostra più profonda gratitudine.