La Stampa, 18 Aprile 2001
Alberto Papuzzi
Se un uomo di cultura si schiera politicamente, lo si accusa di mettersi al servizio di una ideologia, secondo la nota posizione assunta da Julien Benda nel Tradimento dei chierici. Ma se rimane al di sopra delle parti si dice che la sua opera è sterile, lo si accusa di disimpegno, come sosteneva Antonio Gramsci. Dunque ci troviamo di fronte a un’antinomia: «Nella misura in cui si fa politico, l’intellettuale tradisce la cultura; nella misura in cui rifiuta di farsi politico, la vanifica. O traditore o vanificatore», come osservava Norberto Bobbio in un articolo apparso nel 1953 sul Ponte. Per il filosofo il problema era rappresentato dall’estremismo dell’alternativa, cui contrapponeva l’idea crociana di una «forza non politica», vale a dire una forza morale. In quanto difensore di valori morali, l’intellettuale non può essere accusato di farsi coinvolgere nelle passioni pubbliche; in quanto consapevole del peso e dell’importanza dei tali valori nella vita pubblica, la sua opera non è sterile rispetto al contesto sociale.
Quello scritto, «La forza non politica», apre il libro Il dubbio e la scelta, apparso nel 1993 (per i tipi della Nis). Si tratta di una raccolta di saggi bobbiani dedicati al rapporto fra intellettuali e potere nella società contemporanea. Eravamo nel pieno del terremoto scatenato dall’inchiesta giudiziaria di Mani pulite, la prima Repubblica, con le picconate di Cossiga, stava avvicinandosi a una ingloriosa fine, la questione degli intellettuali - peraltro presi anch’essi in contropiede dal cataclisma - non sembrava allora né attuale né avvincente: forse per questo il libro passò quasi inosservato, a dispetto del bel titolo, carico di significati allusivi. In un mutato contesto riappare oggi, nella collana economica, i «Quality Paperbacks», dell’editore Carocci (che ha assorbito la Nis).
Le due parole dubbio e scelta rimandano naturalmente ai compiti precipui dell’intellettuale e del politico: dovere del primo è sollevare dubbi, esercitando la critica, dovere del secondo è farsi carico della responsabilità delle scelte. Questo è un tema bobbiano per eccellenza, se si pensa che la frase più nota del filosofo è l’incipit di Invito al colloquio, pubblicato sulla rivista Comprendre nel 1951 (poi raccolto in Politica e cultura, Einaudi 1955): «Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dubbi, non già di raccogliere certezze». Tale concezione del ruolo degli intellettuali, non a caso partorita nella guerra fredda, è propedeutica alla possibilità di dialogo, è la base per riuscire a dialogare, fra parti avverse ideologicamente e politicamente. Ma il tema degli intellettuali, che affolla le pagine del libro, è naturalmente assai più largo e complesso. Come Bobbio anticipa nell’introduzione, esistono figure diverse di intellettuale e piani diversi in cui operano, ed è fuorviante ignorare queste distinzioni. Una cosa sono gli «intellettuali ideologici», un’altra i cosiddetti «tecnici del sapere», come una cosa è il piano dell’essere, un’altra quello del «dover essere». Perciò non ha mai senso parlare di morte degli intellettuali, soprattutto in società pluralistiche in cui i mezzi a disposizione degli intellettuali continuano a espandersi.