ESCE UNA RACCOLTA DI LETTERE E ARTICOLI DI TROMBADORI, INTELLETTUALE DEL PCI.
CONTIENE ANCHE UNO SCAMBIO EPISTOLARE CON BOBBIO
Mirella Serri
Camicia rosso fuoco, da vero garibaldino. Così, come un soldato al seguito dell'eroe dei due mondi, Renato Guttuso aveva raffigurato in un suo celebre dipinto il compagno di mille battaglie, Antonello TROMBADORI. Un vero garibaldino, ardito, avventuriero e bastian contrario a volte un po' guascone, TROMBADORI, scomparso nel '93, protagonista tra i più noti della vita politica e culturale del Pci, lo è stato fino ai suoi ultimi giorni. «Ho una montagna di articoli e di interventi, ma la pigrizia e oramai la mia malattia me ne fanno distogliere gli occhi invece di metterci le mani e farne un volumetto, a mo' di Diario in pubblico»: così TROMBADORI metteva al corrente l'amico Pietro Valenza dell'esistenza di un bel pacchetto di inediti, e cioè di pezzi destinati a l'Unità e mai usciti, accompagnati da lettere a intellettuali, scrittori, politici. Questa massa di scritti, in cui muoveva spesso anche severe critiche al partito a cui aveva dedicato tutta la vita, Antonello li aveva raccolti, con l'intenzione di pubblicarli, in una cartellina ora ritrovata dal figlio Duccio.
Con un titolo in parte rubato a Elio Vittorini, il Diario in pubblico. Lettere agli amici de «La Carbonara», adesso esce da Marsilio editore, a cura di Paolo Franchi, autore della bella e approfondita introduzione, e Duccio TROMBADORI. Insomma il gappista di via Rasella, la medaglia d'argento della Resistenza, il togliattiano per eccellenza, l'uomo che per anni aveva fatto il bello e il cattivo tempo nella politica culturale del suo partito, arrivato agli anni Novanta proprio con questo libro voleva render più che palese quella che chiamava la sua vocazione «socialdemocratica». E mettere nero su bianco dieci anni di arrovellamenti, di dubbi, di perplessità sul partito di cui lui non aveva apprezzato nemmeno il cambiamento del nome in Pds.
Il Diario in pubblico inizia dal 1982, quando Antonello comincia a dimostrare grande insofferenza per il Pci di Enrico Berlinguer. E termina con un articolo del '92 in cui TROMBADORI si dichiarava un ex comunista deciso a votare Psi. Uno scritto che si risolse a tenere nel cassetto solo dopo le ripetute insistenze di Paolo Bufalini. Le lettere sono indirizzate a carissimi compagni, anche loro militanti come TROMBADORI nella destra del Pci, riformisti o miglioristi: da Gerardo Chiaromonte a Paolo Spriano, allo stesso Valenza, a Rosario Villari, a Bufalini. Oppure sono intellettuali come Norberto Bobbio, che Antonello aveva conosciuto nel '55, durante uno «storico» viaggio in Cina di un gruppo di intellettuali, tra cui Franco Fortini, Piero Calamandrei, Ernesto Treccani e Franco Antonicelli.
A Bobbio, TROMBADORI scrive dopo aver letto l'anticipazione sull'Unità del suo volume einaudiano del '90, L'età dei diritti, e per commentare un'intervista del filosofo e politologo alla Stampa sul rapporto tra Unione sovietica e Pci. In un'epistola lunga e appassionata, TROMBADORI ricorda al pensatore torinese che il nostro mondo non è solo quello dei diritti ma anche quello dei «doveri». A cui segue puntuale, e oggi più che mai attuale, la risposta di Bobbio: «diritti e doveri sono concetti correlativi, come padre e figlio... Anche nel caso che tu citi dei poveri del Terzo mondo... e nel caso dei nuovi poveri dei paesi dell'Est europeo. Noi riteniamo di avere degli obblighi verso i paesi più poveri in quanto siamo venuti riconoscendo che avevano dei diritti, prima di tutti quello di non morire di fame».
Anche in queste ultime lettere assai tormentate TROMBADORI non smette di essere quello spiritello per nulla malefico ma ardente, passionale che era stato per tutta la sua vita. Un vero «grillo parlante» e coscienza critica, amante delle sciabolate e del confronto delle idee non solo all'interno del Pci e dei comitati centrali ma anche fuori. Era, infatti, proprio lui, il figlio del pittore Francesco, critico d'arte e uomo di cinema, poeta, giornalista, il volto più celebre del partito comunista del dopoguerra. Mai frivolo ma seriamente impegnato a scontrarsi, a volte anche a colpi di versi in romanesco, con gli amici-nemici - da Giulio Andreotti (che lo chiamava comunista a 18 carati), a Pier Paolo Pasolini, ad Alberto Moravia, a Federico Fellini e Alberto Ronchey.
«Non ho letto Marx, ma sono amico di TROMBADORI», la battuta di Ennio Flaiano risuonava nei salotti capitolini (poi arriverà Ettore Scola, nel film La terrazza, a portare sugli schermi quella dolce kermesse romana e politico mondana di cui Antonello era protagonista). Comunque, fino alla fine TROMBADORI sarà sempre pronto alla riflessione anche spregiudicata e coraggiosa. Il 27 febbraio 1990 scrive di getto a Spriano e Villari. La sera prima erano stati a cena insieme alla Carbonara, a Campo de' Fiori, ristorante dove si era riunito tante volte in passato il gruppo della destra romana. E tutti e tre si erano messi a riflettere sui destini della penisola e su cosa sarebbe accaduto se il Pci fosse andato al potere alla fine della guerra. Davanti ad amatriciane e fritti misti discutevano sull'ipotesi che il 18 aprile '48 il Fronte popolare avesse vinto le elezioni. I tre amici si chiesero, dunque, chi tra loro si sarebbe trovato dalla parte dei «fucilati e chi dalla parte dei fucilatori». Quesito difficile e pure di imbarazzante risoluzione. Ma la mattina seguente il vigile e tempestivo TROMBADORI sentiva il bisogno di ritornare sull'argomento e di spiegare per lettera agli amici le sue ragioni. Un'epistola certo privata. Ma per il pugnace Antonello il privato non c'era quando si trattava di scottanti questioni politiche e culturali. La missiva finiva, non a caso, in quella misteriosa cartellina da cui è nato il suo Diario in pubblico e a cui già pensava.