Due Italie e tre i

di Michelangelo Bovero

Quarant'anni fa, Norberto Bobbio raccolse in volume i ritratti di alcuni personaggi della storia italiana, «chierici che non avevano tradito» all'avvento del fascismo. Intitolò la raccolta Italia civile. Questo titolo, come ricorda lo stesso Bobbio, gli fu suggerito per antitesi da quello del libro di Curzio Malaparte, Italia barbara, pubblicato da Gobetti nel 1925. Il tema delle «due Italie», continuamente rivisitato, e con notevole frequenza nell'ultimo decennio che ne ha offerto copiose occasioni, trova le sue prime radici nella tradizione gobettiana. All'indomani della marcia su Roma, Gobetti scriveva: «Noi non combattiamo, specificamente, il Ministero Mussolini, ma l'altra Italia», da lui definita come «l'unione confusa di tutte le nostre antitesi». Dunque l'«altra Italia» era per Gobetti quella barbara: altra rispetto a sé, la propria antitesi. Com'è noto, questa espressione ha finito col designare oggi, rovesciando l'accezione gobettiana, l'Italia civile. Forse perché ci si è arresi all'evidenza che l'Italia incivile, o ben scarsamente civile, incapace di riscattarsi da patologie inveterate, pronta a ricadervi in diverso grado e in vario modo, in tragedia e in farsa, continua ad essere ricorrentemente l'Italia maggioritaria. Del resto, lo stesso Gobetti aveva intepretato l'anti-civiltà fascista come «autobiografia della nazione». E l'autobiografia è continuata in tante forme, più o meno barbariche o grottesche, correndo persino il rischio, col revisionismo storico, di diventare agiografia.

Ritratti delle «due Italie» sono stati tracciati da molti in varie occasioni. Con la formula «Italia civile», Bobbio spiegava di voler alludere «a un paese ideale, non molto abitato, immune da alcuni vizi tradizionali, e fra loro contrapposti, della vecchia Italia reale (vecchia e sempre nuovissima): prepotenza in alto e servilismo in basso, soperchieria e infingardaggine, astuzia come suprema arte di governo e furberia come povera arte di sopravvivere, il grande intrigo e il piccolo sotterfugio».

Gobetti aveva scritto: «Il fascismo ha avuto almeno questo merito: di offrire la sintesi, spinta alle ultime inferenze, delle storiche malattie italiane: retorica, cortigianeria, demagogismo, trasformismo». Commentando quest'affermazione gobettiana, Bobbio sintetizzò: «la sempiterna Italia dei furbi e dei servi». Un aspetto macroscopico dell'identità culturale fascista fu stigmatizzato da Croce con un nome: onagrocrazia, il potere degli asini. L'ultimo capitolo dell'autobiografia della nazione potrebbe essere intitolato, più comprensivamente, kakistocrazia, il potere dei peggiori (kàkistos, in greco, è il contrario di àristos). Con stupefacente sostegno popolare - la sempiterna Italia dei furbi e dei servi? - si affermano personaggi arroganti e insieme ridicoli. La mancanza di senso della misura e

la propensione alle gaffes ne fanno soggetti ideali per la commedia e per la satira; la gravità dei loro atti e delle conseguenze di questi è però drammatica. In un panorama complessivamente mediocre, sono i peggiori delle varie specie: plutocrati ignoranti, bifolchi insipienti, pretoriani infingardi. Toh, guarda: ignoranti, insipienti, infingardi. Tre «i». Come «italiani»? C'è da rabbrividire.

Un sommesso suggerimento per gli strenui difensori - che immagino desolati e disperati - del prestigio italiano nel mondo: credo che converrebbe loro attestarsi su una linea di difesa molto sobria e modesta, ad esempio criticando i pregiudizi generalizzanti sull'«italianità». Ma senza avventurarsi nel tentativo di distinguere un'Italia «falsa» da una «vera». Perché la ricorrente ripetizione da parte dei «rappresentanti» (!) ufficiali dell'Italia, sia pure con varianti nei diversi tempi e circostanze, di certi comportamenti e atteggiamenti, persino gesti e pose, offre ai pregiudizi un corpo concreto, rischia di farli apparire proprio «veri».

Per quanto mi riguarda, intravedo una via di fuga. Nient'affatto codarda: anzi, verso l'alto. Il filosofo torinese Piero Martinetti, al burocrate fascista che gli ingiungeva di dichiarare la propria nazionalità, rispose: «Io sono un cittadino del mondo, casualmente nato in Italia». La cosmopoli è una repubblica morale, un'aspirazione ideale. Ma la possibilità di dichiararsi cittadini d'Europa è per noi una prospettiva concreta. Anche se sulla nascita della costituzione europea si addensano molte preoccupazioni. E sempreché la devastante, grottesca protervia dell'Italia incivile non riesca a funestare il lieto evento.




luglio 2003