Trent'anni di storia della cultura a Torino non offre semplicemente una lettura alternativa, rispetto all´idea di un azzeramento delle distinzioni - e delle responsabilità storiche - tra fascismo e antifascismo, nella specifica realtà di una grande capitale della modernizzazione italiana. Questo, comunque, sarebbe già un buon motivo per ripubblicare il libro. Riverbera una concezione della cultura come «libertà della ragione rischiaratrice», per usare una definizione bobbiana.
Agli inizi del millennio, viviamo in Italia una fase di transizione in cui la politica sembra di nuovo voler comprimere le ragioni della cultura, sia attraverso la potenza di inglobamento del sistema mediatico sia per effetto dell´invito a schierarsi rivolto agli intellettuali indotto dalla competizione maggioritaria. Il libro di Bobbio sulla vita culturale, a Torino, nel Ventennio, ripropone invece un´immagine e una interpretazione dell´intellettuale militante - che non cerca riparo nell´accademia ma si confronta con i problemi della vita collettiva - come uomo che si batte per la difesa della propria libertà e autonomia e dei presupposti stessi della cultura.
Rileggendo queste pagine, così ricche di memorie, scritte anche con la pazienza del cronista, ci si accorge anche che esse non parlano di una cultura antifascista o di una cultura degli antifascisti, bensì di come la cultura abbia generato l´antifascismo. La maggior parte dei personaggi ritratti in Trent´anni di storia della cultura a Torino non sono schierati nelle file dell´antifascismo per consapevole scelta ideologica e politica - come accade ad Antonio Gramsci o a Vittorio Foa -, ma perché appartengono ai suscitatori di forze morali e intellettuali (come Bobbio dice di Gobetti) che il fascismo non tollera e ai quali vorrebbe imporre il silenzio. Si tratta di uscire dallo strapaese, secondo le regole Einaudi. E´ l´humus culturale in cui essi operano a generare l´antifascismo: così Gobetti apprende da Einaudi «quella visione del mondo e della storia secondo cui la lotta è il grande motore della storia».
Così per la giovane e nuova scuola torinese il crocianesimo è soprattutto una lezione di metodo: «nella ricerca storica, netta distinzione fra storia e cronaca».
E´ esemplare in questo senso la lettera al rettore con cui Leone Ginzburg rifiuta di prestare il giuramento di docente: «Desidero che al mio insegnamento non siano poste condizioni se non tecniche e scientifiche».
Della rivista einaudiana «La Cultura», legata alla retata del maggio `35, si dice esplicitamente che non poteva essere una rivista politica, ma il tentativo di un piccolo gruppo di dissidenti di «continuare a far il proprio lavoro di liberi scrittori».
Perciò Cesare Pavese chiude il paradigma storiografico di questo libro. L´interpretazione politica della narrativa pavesiana, anche alla luce dei suoi rapporti con il Partito Comunista dopo la Liberazione, è considerata da Bobbio «del tutto aberrante». Si cita invece una sua lettera: «Unico mio disinteresse - ab aeterno e parlo colla mano sul cuore - la letteratura politica».
Lo scrittore appartiene anch´egli alla generazione postgobettiana, ma il suo Piemonte «non è né quello di Gobetti, né quello di Burzio o di Cajumi; e neppure quello di Monti».
La sua dimensione tragica si pone fuori della storia: Pavese è «l´impolitico». Pavese ha il senso tragico del debole, Gobetti quello del forte.
La categoria interpretativa fascismo-antifascismo non entra in gioco, nel ritratto che Bobbio disegna di Pavese, alla fine del suo viaggio memorialistico nella cultura torinese fra le due guerre. Non solo Pavese non è politicamente manipolabile, ma nella sua visione malinconica si macerano gli stereotipi e le oleografie sulla culla del Risorgimento e sulla Pietrogrado d´Italia. Quella che si sviluppa da Gobetti e Pavese è la parabola di una sconfitta, perché dopo Torino «si ripiega su se stessa» e non avrà più il ruolo di centro di formazione e di irradiazione che aveva assunto nell'immediato dopoguerra. Ma soprattutto perché gli intellettuali che popolano Trent'anni di storia della cultura a Torino raccontano, in realtà, «quanto sia difficile e ingannevole, e talora inutile, il mestiere di uomini liberi».
Alberto Papuzzi