Norberto Bobbio
Anticipiamo un articolo di Norberto Bobbio che compare sul numero di Reset in vendita da oggi. Su questo tema Bobbio si è già soffermato nell'intervista a Giancarlo Bosetti pubblicata su queste pagine il 25 gennaio scorso. Paolo Bellinazzi ha scritto un libro di grande interesse per il modo in cui la tesi è difesa. Il libro è intitolato L'utopia reazionaria (Name, Genova 2000). La tesi sostenuta appare già chiaramente nel sottotitolo: «Lineamenti per una storia comparata della filosofia comunista e nazionalsocialista». Il volume sostiene e dimostra facendo riferimento alla storia della filosofia, da Platone ai giorni nostri, che contrariamente alla opinione comune secondo cui nazismo e comunismo sono due ideologie opposte, sono omogenee e hanno matrici comuni.
Entrambe hanno un comune nemico, il libero mondo borghese del mercato e degli stati parlamentari, e gli argomenti con cui lo combattono sono generalmente gli stessi: fondamentale la contrapposizione tra comunità e società. Tanto il nazismo quanto il comunismo antepongono il concetto di comunità a quello di società che è proprio delle filosofie mercantili e borghesi. Anziché antitetici, sono paragonabili fra loro due autori che appartengono alle due parti opposte: Carl Schmitt e György Lukács. Ma il raffronto coinvolge anche il rapporto tra Marx e Nietzsche, si sofferma a lungo sulla critica dell'illuminismo da parte della Scuola di Francoforte, termina con una critica radicale di Rousseau, come rappresentante dell'arcaismo filosofico. Cito a pagina 83: «Comunismo e nazifascismo, movimenti retrogradi che cercarono di tornare indietro, dando di bel nuovo il potere in mano a ristrette e aristocratiche oligarchie. La nascita del capitalismo, così come la nascita del movimento dei mercanti e dei nuovi ricchi di Atene, fu la nascita di un individualismo borghese soddisfatto di se stesso, che voleva strappare il potere di mano alle antiche élites».
L'idea di una città futura costruita sull'archetipo di una città passata «fu ritenuto un ideale intramontabile della mente umana, prova ne sia che essa non avrebbe smesso di determinare le valutazioni dei filosofi con la scomparsa di Marx Hegel, Aristotele e Platone, ma avrebbe continuato ad esercitare il suo influsso su di essi, almeno fino alla assimilazione suggerita da Horkheimer tra il governo di Roosevelt e quello di Hitler» (pag. 84).
Più oltre: «La condanna che Marx e Nietzsche pronunciano contro i costumi di vita borghese finisce inevitabilmente per trasformarsi in una critica recessiva della modernità. Il culto della socialità ha, quale risultato, l'oppressione dell'individuo ed il soffocamento di tutte le sue manifestazioni vitali, lo sguardo rivolto in alto alla ricerca delle idee platoniche degenera nella ricerca del mito, ecc». (pag. 121). Sono comuni a tutti questi passi le critiche alla immoralità borghese. Vengono considerati «scrittori neri» della prima borghesia Machiavelli, Hobbes, Mandeville, e De Sade, che non hanno esitato a riconoscere la società come principio distruttivo. Quello che colpisce negli interventi di questi pensatori di destra e di sinistra è l'arretratezza del modello cui si ispirano. Si tratta di tematiche anti - borghesi, antiliberiste, ed antipositiviste, molto diffuse in Germania al tempo del nazismo che, come il comunismo era un movimento rivoluzionario che voleva farla finita sul serio con i borghesi e i positivisti.
Il libro cita Heidegger, Jaspers, Schmitt. Tanto i nazisti quanto i marxisti sono essenzialisti e universalisti quando si tratta di combattere la storia come storia dei fatti in nome di una storia razionalistica e finalistica. «A inchiodare i marxisti alle loro responsabilità e a mescolarle con quelle dei nazisti ci pensa la comune visione solidaristica della società..., il desiderio comune di sostituire i costumi della borghesia, il suo concetto della vita, priva di valore,... con una concezione del mondo in cui fossero ripristinati il dogmatismo e il teologismo della filosofia platonicoaristotelica» (pag. 167). A proposito di Lukács scrive che egli «crede che empirismo e positivismo siano il frutto intellettuale e il rispecchiamento di una società caotica e disgregata, la società voluta dalla borghesia e dal capitale» (pag. 180). Quando Zinoviev condannò Lukács nel ‘24 per essersi dimostrato troppo idealista, non comprese che tanti comunisti come i nazisti erano dei "poveri idealisti", desiderosi di superare la frammentarietà e la volgarità del pensiero borghese» (pag. 181).
Molte pagine sono dedicate ad Husserl, di cui si vuol dimostrare che non è affatto opposto ad Heidegger. I due filosofi sembrano litigare fra loro, ma litigano sulle parole: quello che preme a entrambi è di non essere confusi con un intellettualismo estraneo al mondo che non tiene conto della storicità e della possibilità di fondare una nuova collettività. Occorre non dimenticare che nel secondo dopoguerra l'insulto più grave dei comunisti ai loro nemici era di perdersi in ragionamenti astratti, in un intellettualismo snobistico e in un'analisi della realtà che illuministicamente non teneva conto delle sue tendenze concrete» (pag. 41).
Si accusano reciprocamente di essere reazionari. In realtà lo sono entrambi non secondi a nessuno nel rimproverare ai filosofi illuministi di aver distaccato teoria e prassi dimenticando l'importanza della storia nel destino dei popoli (pag. 241). Nelle pagine della conclusione la condanna di Rousseau considerato il principe dei reazionari che stronca il razionalismo e l'ottimismo degli illuministi e raccomanda ai suoi contemporanei di ritirarsi nella propria interiorità in un secolo, come il Settecento, che sembrava votato ad emancipare l'uomo da questo ritorno all'agostinismo. A pag. 261 si legge ancora che il radicalismo di Marx e Nietzsche è un radicalismo rivoluzionario e utopico, con una forte valenza retrograda.
In conclusione si tratta di scegliere tra Platone e Protagora «primo e più importante esponente di tutti i sofisti e credere nel dissenso, nell'individualismo, nella relatività della fisicamatematica, nei principi teorici asociali dell'egoismo liberoborghese» (pag. 279).
Questa conclusione così drastica e semplicistica rivela i limiti del libro e della tesi sostenuta, come è già stato fatto notare, per esempio, da Marco Revelli. Sulle affinità, addirittura sulle somiglianze concettuali tra le due ideologie, sulla forma del regime e sull'origine dei due stati totalitari più volte raffrontati e inseriti nella categoria del totalitarismo, l'analisi del Bellinazzi reca argomenti che non si possono in alcun modo trascurare, e nell'analisi dei due mondi contrapposti va più a fondo di quello che si sia fatto sinora, ma resta la differenza tra un'ideologia perversa non solo nei mezzi ma anche nei fini e una perversa nei mezzi e salvifica nei fini. Ci si potrebbe domandare se la bontà del fine non renda ancora più evidente la perversità dei mezzi. Come si è potuto pensare che un fine buono potesse essere raggiunto con mezzi cattivi? Il tema è stato più volte affrontato.
Ricordo il bel libro di Pontara Se il fine giustifica i mezzi. Una domanda: «Non c'erano altri mezzi per raggiungere il fine buono? Quei mezzi cattivi erano necessari? Il mezzo cattivo non corrompe il fine buono?». La risposta positiva rimanda al gandhismo. Il tema è stato riproposto in questi ultimi tempi dalle riflessioni che lo stesso Papa ha provocato chiedendo perdono delle iniquità commesse dalla Chiesa. Si veda il libro nero del cristianesimo.