L’equivoco continua. Si sta chiudendo la vicenda un po’ grottesca del «civico sigillo» a Bobbio e Galante Garrone. Ma nell’ultimo scambio di lettere tra i due interessati e il presidente della Regione Ghigo, si è inserito un punto importante: la diversità di valutazione circa l’esistenza di una egemonia culturale dei comunisti sull’antifascismo. Bobbio la squalifica seccamente come «una tesi tipicamente revisionista». Dal momento invece che la tesi è stata evocata positivamente da Ghigo, facendo il mio nom e, mi sento in dovere di intervenire. Non perché mi faccia paura la parola «revisionismo», ma perché la questione è rilevante. Diciamo subito che qui non è in discussione la posizione preminente avuta di fatto dai comunisti nella conduzione armata della Resistenza accanto ad altre forze (azionisti innanzitutto, ma anche cattolici e monarchici). Discorso diverso meriterebbe già il loro ruolo all’interno degli organismi politici della Resistenza che erano consensualmente pluripartitici. Da qui il carattere pluralista e consensuale che è stato distintivo della politica della Resistenza e quindi costitutivo dell’identità democratica d ella Repubblica, pur con tutti i suoi innegabili limiti (primo fra tutti il condizionamento degli Alleati, vincitori militari della guerra). Ciò su cui si deve riflettere però sono le ragioni del progressivo venir meno, con il passare degli anni, della pluralità e della coralità delle voci partitiche che riconoscono nell’antifascismo un tratto significativo della propria identità e quindi lo affermano pubblicamente. Il partito che prende invece la direzione opposta è il partito comunista, che dell’antifascismo fa un elemento decisivo di autolegittimazione democratica. Se in questo modo il Pci cerca di minimizzare alcuni caratteri e comportament i anti-democratici del suo movimento e della sua ideologia, non si può dimenticare che in Italia esso rimane la forza politica di massa che mantiene vivo e attivo il riferimento all’evento fondante della Repubblica. Qui sta la radice della «egemonia culturale» comunista nell’interpretare l’antifascismo nel suo insieme e nel produrre una immagine un po’ «mitica» di esso. A questo punto si pone il problema dell’azionismo che - come è noto - da formazione politico-militare di ispirazione democratica radicale, importante nella fase resistenziale, si è presto trovato in una posizione minoritaria di testimonianza prevalentemente intellettuale. È altrettanto noto che gli azionisti non si sono mai identificati con i comunisti, non risparmiando loro critiche e prese di distanza. Ma sarebbe stato assurdo che essi «rompessero» con l’unica forza di massa che manteneva un rapporto non meramente rituale con la Resistenza. Tanto più che i comunisti italiani proprio dal ricordo dell’esperienza pluripartitica dell’antifascismo storico potevano trovare motivi concreti di pratica democratica. Ma veniamo agli anni Novanta, che in Italia non segnano solo la crisi e la metamorfosi del comunismo ma anche una energica ripresa della storiografia sulla Resistenza e sull’Italia della «guerra civile». Il fenomeno dell’antifascismo viene finalmente riconosciuto e riproposto in tutta la sua complessità e persino contraddittorietà. Si presta nuova attenzione al fenomeno dell’attendismo della popolazione, al comportamento delle forze armate, alla resistenza passiva di alcuni settori cattolici. Tutto questo lavoro di ricerca storica, che contiene in sé una ricostruzione più matura e critica dell’antifascismo storico, riconfermato fondamento della Repubblica proprio nella sua complessa articolazione - attende ancora la sua sintesi. Soprattutto, oggi manca un discorso pubblico che, a livello di grande comunicazione, riproponga l’antifascismo al plurale. Proprio perché la Resistenza non è stata solo «rossa», il processo critico o autocritico della sinistra comunista su alcuni aspetti del proprio pas sato non liquida affatto la Resistenza come tale. Sin tanto che a livello di discorso pubblico non si produce questa immagine nuova (in realtà storicamente più fedele) della Resistenza, rimane l’equivoco da cui siamo partiti: un circolo vizioso per cui l’antifascismo sembra essere un attributo esclusivo delle forze di matrice comunista, mentre gli altri partiti democratici stanno a guardare passivi e complici di «revisionismi storici» e domande di «riconciliazione» politica che davvero liquidano le radici originarie della Repubblica. A ciò si aggiunga l’e ffetto distruttivo dell’uso sistematico e intenzionalmente diffamatorio del termine «comunista» da parte della destra per definire i propri avversari. In questo contesto si collocano le posizioni di Bobbio e di Galante Garrone, testimoni viventi di una questione storica e politica irrisolta. Ricordo che agli inizi degli anni Novanta Bobbio ripeteva che il problema della legittimazione, che affliggeva la nostra democrazia sin dalle origini, era racchiuso tutto nel contrasto tra antifascismo e anticomunismo. Ma ricordo anche che in uno dei suoi rari momenti di ottimismo si chiedeva se non si cominciasse ad andare nella strada giusta: non già per seppellire quel contrasto ma per superarlo in una più matura visione democratica. Non è stato così. Oggi siamo al punto di prima. Ma la colpa non è degli anziani militanti azionisti, bensì di noi epigoni.
Gian Enrico Rusconi